Pubblicazioni
Franco Acquaviva, STRATEGIA DELLA SPARIZIONE, Giuliano Ladolfi Editore, Marzo 2020, Pag 100, euro 10
STRATEGIE DELLA SPARIZIONE. UNA LETTURA
(Dalla prefazione di Ivan Fedeli)
“Verrebbe da pensare a Pasolini, a D’Elia, quando si leggono i versi di Franco Acquaviva. Una poesia, la sua, legata al dovere di essere uomo a tutto tondo e, soprattutto, civis, cittadino in divenire e progetto in sé, nel tempo e per il tempo. Strategia della sparizione, in uscita per i tipi di Ladolfi editore, rappresenta un dramma etico, quello di una dimensione umana che tende all’empatia, ma scivola inesorabilmente distante, fino a trasformarsi nella sua nemesi, l’indifferenza consapevole. I personaggi che agiscono nel libro sono figure, individui senza nome, accomunati dalla metafora di un muro che divide e separa le monadi di un’esistenza giustificabile solo in un sistema chiuso, da cui è impossibile uscire se non attraverso una crepa, una speranza capace di vincere il solipsismo”.
Del libro STRATEGIA DELLA SPARIZIONE di FRANCO ACQUAVIVA (Ladolfi Editore, marzo 2020), potete leggere inoltre le seguenti recensioni con silloge di poesie.
> Su PANGEA una presentazione di IVAN FEDELI e una silloge di poesie
http://www.pangea.news/franco-acquaviva-poesie/?fbclid=IwAR0-M3naSLwUe3yn_5hOxqhFw7-peuNAjq1KPKfl9NqjQ2yvHs87zu03wMY>
> Sul blog dello scrittore GIACOMO VERRI una recensione in forma di mini saggio di FRANCESCA TINI BRUNOZZI, del libro http://https://giacomoverri.wordpress.com/20/05/13/la-proiezione-di-una-personale-cosmogonia-una-lettura-di-strategie-della-sparizione-di-franco-acquaviva/?fbclid=IwAR2xjELpQdbufQQ_Brg8YAoOdsCNr0C3Xiu2KDeL6OVgLFd40t5jmGNxvOU
> Su NIEDERNGASSE una recensione di GUIDO MICHELONEhttp://www.niederngasse.it/rubriche/recensioni/la-strategia-della-sparizione-di-franco-acquaviva
> Su MARGUTTE una recensione di GABRIELLA MONGARDIhttp://www.margutte.com/?p=32747&fbclid=IwAR399aopKyLkPpKFs99RtPDf5o-G2WpKNXJ9Jz-TE-gDncuV31KCdQSO7ac
NUOVO!
> Su LA POESIA E LO SPIRITO un’intervista di GUIDO MICHELONE a Franco Acquaviva
https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2020/07/11/la-poesia-della-sparizione-intervista-a-franco-acquaviva/?fbclid=IwAR1tQokiaKawM_KPnSojIADDainWwl62IY2rl4-sEBw_H30WNMn3-BD6YL8#more-113260
Franco Acquaviva, TEATRO NELLE FIBRE DEL CORPO, Giuliano Ladolfi Editore, Febbraio 2016, Pag 167, euro 12
L’ESILIO, LA PATRIA E UN’ALA DI GABBIANO
Per presentare la poesia di Franco Acquaviva
di Andrea Temporelli
Franco Acquaviva da tempo ha messo radici in una terra di laghi e di montagne, i cui silenzi furono forgiati e resi aspri dai colpi di scalpellini prima e, in seguito, dal più assordante, ritmico rimbombo di stamperie e di rubinetterie. Sono terre abituate a questa durezza: l’incanto del lago d’Orta non è disteso, turistico, come quello del lago Maggiore, appena sull’altro versante delle alture prese a dimora dall’autore: è pronto a chiudersi, a incupirsi in varie tonalità di grigio. E anche quando il cielo si apre, la durezza dei ghiacciai domina sopra ogni cosa e il tempo raramente si cesella in giochi di azzurri e di verdi. Anche il cielo, anzi, qui è addestrato a essere duro come la selce: «Come un tetto di basalto che si sposti / tutto il cielo pare scorrere sul capo».
Franco è giunto a queste terre, immaginiamo, ripercorrendo «sentieri di capre» non troppo dissimili da quelli su cui lo stesso Dante, nel mirabile discorso di Mandel’štam, ha dovuto mettere alla prova la propria andatura, umana e prosodica. Malgrado l’improvvisa, straziante bellezza della natura che ancora straripa in questi luoghi, non c’è idillio in quelli che si rivelano essere un «cantiere perenne, ostile…»; piuttosto, c’è una pace tesa, combattuta, come di chi avesse imparato a trasformare l’esilio in patria, nella terra dei padri. Si veda nelle pagine che seguono, in tal senso, il richiamo costante agli antenati, ai morti, alla memoria delle genti di cui il paesaggio resta intriso – ma anche ai figli, naturalmente, perché il filo della civiltà non si spezzi: «Non chiamarli figli, ma incantatori; / loro hanno tessuto questa tela intorno / sta a te tenerla tesa, non disfarla, / controllare che il loro peso sia accolto / ogni giorno con levità, vegliando».
Dante, Mandel’štam… Prima di giungere qui, l’autore ha percorso un viaggio sicuramente lungo, fisicamente e idealmente, tanto che la Russia si rivela sorprendentemente appena dietro l’angolo, nelle sue memorie, come se a quelle latitudini, tra fine Ottocento e i primi del Novecento, si fosse vissuto un periodo mitico, per il teatro certamente – il principale interesse dell’autore – ma per l’umanità in generale. I richiami alle esperienze di Vachtangov o a Treplëv, personaggio di Čechov, sono qualcosa di più che reminiscenze o omaggi intellettuali. Sono indizi sintomatici, alterego nel tempo e nello spazio chiamati in questi versi a portare testimonianza.
Non si creda che a spingerlo a fermarsi su questo confine sia stato il sogno di una missione civilizzatrice. Da decenni, è vero, egli insiste tenacemente, testardamente a proporre con il suo Teatro delle Selve, malgrado tutte le difficoltà di natura sociale (ovvero economica e politica), forme di avvicinamento a un pubblico ancor più ostinatamente arroccato nel dualismo lavoro-svago, sistole e diastole vitale che impongono asservimento al dovere e intrattenimento come due lati connessi di una medesima assuefazione alla realtà o allucinazione esistenziale. Tale impegno è infatti soltanto il corollario, rispetto alla presa di posizione netta che Franco Acquaviva ha compiuto e di cui ci parla proprio in questo libro.
Egli ha affidato infatti al linguaggio della poesia, così assoluto, così oppositivo rispetto al fascino ipnotico della narrazione (che ci costringe a spendere il tempo linearmente verso uno sbocco conclusivo) il suo messaggio intransitivo, forse paradossale. E qui diventa utile, appunto, il testimone chiave: «Il non-teatro di Treplëv starà lì / a testimoniare da più di un secolo – / e qualcuno voleva ancora lo spettacolo». Ecco, mi azzardo a interpretare in questi termini il nucleo irradiante che i versi di questo libro circoscrivono, rivelano e proteggono: teatro è mostrare, non nascondere. Per quanto le maschere inducano sempre al riso, per quanto la gente si attenda il palco e la distanza rassicurante con la scena allestita a suo uso e consumo (passivo), l’arte non può adagiarsi in questa postura viziosa, ma la usa per infrangerla, più o meno esplicitamente, per avvitarsi e staccare improvvisamente i tiranti su cui si regge ogni metafora, predisposta perché vi sia, infine, la (ri)scoperta del mondo, della natura, nella sua ammutolente evidenza. Lo scatto da compiere è nella marionetta che prende vita, in quel linguaggio che «non dice eppure profetizza»: paradossale afasia del poeta che, con il suo silenzio, offre la verità, la mostra. Poesia che diventa teatro. Finzione che si fa evento. Scrittura che si appercepisce come gesto concreto.
Talmente concreto che non sorprenderà affatto il piglio civile che in talune sezioni del libro diviene predominante: ma non c’è risentimento acre, rivalsa, nel tono di questi versi. Del resto i poeti «avvisano la specie» delle catastrofi che si annunciano attraverso i dettagli che la loro sensibilità sa cogliere. C’è semmai, quindi, nell’atteggiamento di questa poesia, la ferma opposizione, la pacifica resistenza che può modularsi anche in qualche nota di sarcasmo, ma ogni titanismo romantico, ogni retorica d’eroismo, al fine consolatoria, qui è già bandita. Come è stato possibile raggiungere questo risultato, in un’opera prima? Il fatto è che l’autore giunge esplicitamente alla poesia dopo un lungo percorso e se le diverse movenze stilistiche che si intrecciano nei suoi versi tradiscono un rapido, accelerato percorso di sperimentazione, si percepisce pure, allo stesso tempo, come il poeta provi e accordi il proprio strumento alla luce delle precedenti esperienze, come se fosse finalmente giunto il momento di rendere esplicito un legame genetico finora taciuto. Poesia e teatro, ancora una volta dunque, si ricordano l’uno dell’altro e si ricongiungono qui come fratelli dispersi nelle loro reciproche avventure.
La verità dunque è questa mancanza di sbocchi consolatori, questo stare qui verticali, intransitivi, a rendere ragione dei luoghi, della vita più grande che ci circonda e ci sovrasta. I nostri commerci, i nostri affanni, il nostro rincorrere chissà che, trovano nelle opere d’arte dei blocchi, degli ostacoli. C’è chi è abituato e si destreggia nel superarli senza nemmeno farci più caso, in uno slalom utilitaristico che lo porterà rapidamente a tagliare il traguardo. Ma di tanto in tanto qualcuno ci sbatte contro, è costretto a prendere in mano un libro, viene inquisito da una tela, deve reagire a un attore che si rivolge a lui direttamente. E questi intoppi salutari potrebbero indurlo a sbagliare strada, a finire fuori pista. Prima di darci nuovi punti di orientamento, l’arte deve necessariamente disorientarci, magari costringerci a perderci in una selva oscura – che potrebbe anche celarsi in qualche anfratto di queste terre splendide, se le si ripercorre sui sentieri delle capre, con il ritmico picchiare, in sottofondo, degli scalpellini, fino a trovare uno specchio azzurro che ci stordisce, nel gioco di capovolgimento tra l’alto e il profondo, tra le acque terrestri e i vapori celesti. Se, in questi casi, confusi tra epifanie del sublime in mezzo alla desolazione, all’immondizia, all’insensatezza di tanta vita moderna, finissimo a scorgere un guizzo bianco, come l’ala di un gabbiano, non bisognerà credere a un’allucinazione. Quel gabbiano c’è davvero, esplora all’avanguardia ogni luogo. È fermo, è già stato ucciso infinite volte e lo tengono imbalsamato in mille salotti, ma resta imprendibile, vivo, inutile e guizzante. Come la poesia. Come Dio. Come la vita.